Biblioteca Multimediale Marxista



Dichiarazione

allegata agli atti del processo di appello di Bari – III sez., udienza del 20/3/2009


 

 

 

Come militanti rivoluzionari delle BR-PCC e militanti rivoluzionari, la nostra presenza in questa sede processuale e data dalla nostra collocazione nel rapporto Rivoluzione/Controrivoluzione di cui anche questo appello è parte. La nostra identità politica affonda nel ruolo che ha acquisito la strategia della Lotta Armata nello scontro di classe nel nostro paese per l’affermazione degli interessi generali e storici del proletariato di conquista del potere politico, dittatura del proletariato per la costruzione di una società comunista basata sulla socializzazione dei mezzi di produzione e sussistenza. Un patrimonio rivoluzionario teorico, politico, organizzativo che la nostra Organizzazione ha fatto avanzare nella prassi nel lungo arco dello scontro rivoluzionario che data dal ’70, confrontandosi con i mutamenti di fase e le condizioni imposte dall’approfondimento della controrivoluzione, affermando ogni volta gli interessi politici dell’autonomia di classe e costruendo sull’asse strategico dello sviluppo della guerra di classe lo sbocco storico del potere. In questo percorso fortemente discontinuo, entro cui si sono definite fasi rivoluzionarie con precise caratteristiche e finalità, si sono formate di volta in volta le forze militanti espressione di questi contesti di scontro e del contributo soggettivo apportato dalle fila dell’autonomia proletaria, tra cui noi che proveniamo dall’esperienza della Ritirata Strategica e di apertura della Ricostruzione delle forze rivoluzionarie e proletarie, fase questa a valenza storica perché storiche sono le contraddizioni e finalità che la caratterizzano e che permangono a tutt’oggi come nodi posti alla soggettività rivoluzionaria di classe, complessificati dai profondi cambiamenti dello scontro intervenuti in questi 20 anni. Nodi affrontati dal rilancio della strategia della Lotta Armata del 99-2002, quale risposta della soggettività rivoluzionaria di classe atta a misurarsi con le contraddizioni relative alla ricostruzione da zero della iniziativa offensiva in modo da essere adeguata ad incidere nei rapporti politici e di forza dopo un periodo di lunga assenza del fattore rivoluzionario in grado di far pesare l’interesse generale di classe nello scontro e a fronte di un dato di assestamento controrivoluzionario e di difensiva nelle posizioni del proletariato. Misurandosi con tale contesto la soggettività rivoluzionaria di classe ha sviluppato in continuità-critica-sviluppo con il patrimonio del processo rivoluzionario e comunista in generale, la Linea politica e l’impianto complessivo delle BR-PCC. Ciò ha ridefinito i termini della contraddizione Rivoluzione/Controrivoluzione entro cui noi stessi siamo situati, cosa che ci ha richiesto di dover ricollocare il profilo della nostra militanza sui contenuti prodotti dall’avanzamento rivoluzionario attestato nello scontro e ha implicato misurarsi con una riqualificazione soggettiva non priva di problematicità dovuta allo scarto di un bagaglio di formazione militante storicamente datato. La riqualificazione che ognuno soggettivamente ha inteso percorrere sulla Linea politica attestata dal rilancio è ciò che a nostro avviso dà sostanza alla identità politica di Partito, pur nella condizione di ostaggi e in rapporto a uno scontro che evolve i suoi caratteri controrivoluzionari nei rapporti di classe e che è segnato dall’offensiva della borghesia. Uno scontro che la borghesia mira a “chiudere” facendo dei rapporti di forza Proletariato/Borghesia conseguiti, cioè dell’arretramento delle posizioni in cui è stato sospinto il proletariato, termine di una subordinazione che non solo mira a cancellare dall’orizzonte politico l’ipotesi rivoluzionaria, cioè il perseguimento dell’interesse generale storico di classe di conquista del potere, e azzerare quanto sedimentato dalla strategia della Lotta Armata, ma a incidere il concetto stesso di conflitto di classe e di inconciliabilità degli antagonismi per incardinare il rapporto tra proletariato e borghesia sul terreno di quella “coesione sociale” a cui la soggettività politica della borghesia affida il governo delle contraddizioni suscitate dalla rimodellazione delle relazioni economiche e politiche atte a riorganizzare l’intera vita sociale per imperniarla sul principio che gli interessi del proletariato, quelli particolari, rimosso il terreno degli interessi storici, saranno realizzati nella misura in cui vengono tutelati e garantiti quelli della borghesia. Con ciò la Borghesia Imperialista vorrebbe proporre il Modo di Produzione Capitalistico  quale unico rapporto sociale valido in quanto uscito vincente dallo scontro del secolo scorso e si appresta ad attrezzarsi per approfondire l’incatenamento delle forze produttive, la subalternità del proletariato e il dominio sui popoli. Un proposito ben arduo da realizzare perché la realtà che la Borghesia Imperialista prospetta è quella di un regresso per l’umanità intera che ancor di più oggi prorompe dallo stadio raggiunto dalla crisi/sviluppo capitalistica e dalle strategie di guerra e controrivoluzionarie per il mantenimento del dominio. Una realtà che vede la crisi bancaria e finanziaria esplosa negli USA negli ultimi 2 anni incarnare platealmente il punto di arrivo di una crisi che data dalla fine degli anni ’70 e che in questo senso mostra la fallimentarità dei provvedimenti anticiclici e delle più complessive strategie che sono state sviluppate in oltre 30 anni per riavviare il ciclo economico e sostenere in modo durevole la crescita allargata della produzione e del PIL. Il fatto è che gli interventi di stimolo alla crescita hanno certo sostenuto il capitale nella crisi, ma non potendo affrontare le ragioni che la generano sono stati portatori in ultimo di ulteriori e deflagranti contraddizioni. È questo il caso della leva finanziaria utilizzata in modo prolungato dagli USA che forte della deregolamentazione delle attività delle banche d’affari e degli strumenti della raccolta finanziaria, è stata lo stimolo economico sulla cui base i colossi finanziari, USA e non solo, si sono potuti alimentare con quote crescenti di plusvalore sociale, strutturando l’indebitamento su scala di massa dei lavoratori, allargando ad essi il mercato immobiliare e sostenendo infine con questo meccanismo i livelli dei consumi, stimolo che certo ha sostenuto la crescita della dimensione finanziaria e monetaria del polo dominante, ma che non poteva che sfaldarsi rovinosamente perché poggiante su crediti inesigibili, quelli della massa dei lavoratori sempre meno garantiti e con salari soggetti a continua contrazione. Stante i livelli di alta innervazione tra capitali finanziari e per il fatto che la gran parte dei grandi gruppi finanziari delle aree capitalistiche che ha usufruito di stimoli simili risulta altrettanto esposta quanto a solubilità, era inevitabile che i fallimenti in USA avrebbero propagato le loro conseguenze all’intera finanza mondiale paralizzando la circolazione del credito. Per la posizione dominante del capitale finanziario USA e in generale per il ruolo che svolge il capitale finanziario di traino dell’investimento, penetrazione, accumulazione del capitale monopolistico e per i livelli di integrazione e interdipendenza da esso ingenerati nell’economia mondiale, la crisi finanziaria si è rapidamente irradiata a tutti i settori economici venendo a mancare la linfa di ogni attività economica e nel giro di poco tempo si è assistito alla brusca frenata dei commerci mondiali, alla caduta degli investimenti, della produzione, dei consumi, con conseguenze sociali e politiche drammatiche per i lavoratori in termini di milioni di disoccupati e ulteriore impoverimento.
Una crisi finanziaria siffatta è stata in ultimo il portato cui hanno condotto i successivi e più approfonditi momenti di concentrazione e centralizzazione del capitale monopolistico quale sbocco obbligato, in rapporto al perdurare della non espansività della fase, della condizione di sovrapproduzione di capitali e merci, movimento che inevitabilmente porta ad accelerare la caduta del saggio medio di profitto, irrisolvibile se non attraverso l’ingente distruzione dei capitali e della forza lavoro in eccesso in una guerra di grandi proporzioni, quale condizione per riavviare una fase espansiva. Carattere di fase che spiega perché le politiche anticicliche siano andate a confluire verso il sostegno alle attività e all’accumulazione finanziaria dovendo questa supportare e veicolare l’accresciuta dimensione della concentrazione monopolistica. In tal modo si è venuto a reiterare fino a un punto limite il meccanismo che ingenera la crisi di valorizzazione riproducendo, estendendo e approfondendo tutte le contraddizioni che il lungo periodo di crisi ha sedimentato, dimostrato dalle costante ed elevata distruzione della ricchezza sociale prodotta che non può operare come capitale a fronte della crescente divaricazione tra le forze produttive che lo sviluppo stesso del capitale monopolistico ha spinto ad un altissimo grado di socializzazione e il carattere privato dei mezzi di produzione e sussistenza.
L’ingente distruzione di valori data dalla crisi finanziaria attuale è perciò l’ultimo tassello delle contraddizioni fondamentali dell’imperialismo nonché del portato regressivo delle strategie che fin dall’inizio degli anni ‘80hanno operato su un piano di interventi complessivi da cui è risultato profondamente modificato il volto delle Formazioni Economico Sociali e la geografia degli equilibri internazionali, questo a partire dalle pratiche tese a garantire le condizioni idonee al recupero e innalzamento dell’estrazione di Plus Valore relativo e assoluto, quale perno su cui la dinamica di crisi/sviluppo del capitale ha potuto sviluppare ulteriormente i livelli di internazionalizzazione e integrazione monopolistica sui quali sono state rideterminate  le dimensioni dell’accumulazione e della concorrenza. Esiti poggianti sull’imposizione di nuovi termini di subordinazione e sfruttamento nella metropoli come nella periferia e che hanno avuto come presupposto ripetute offensive controrivoluzionarie aventi lo scopo di impattare gli equilibri generali Borghesia Imperialista e Proletariato Internazionale che vedeva ancora agli inizi degli anni ’80 il proletariato internazionale usufruire delle posizioni di vantaggio cui aveva contribuito il ruolo della strategia della Lotta Armata nei rapporti Classe/Stato, l’esistenza del campo socialista e le guerre di liberazione favorite da questo campo. Da un lato dunque la Borghesia Imperialista ha perseguito il blocco dello scontro rivoluzionario nei rapporti Classe/Stato e dall’altro ha impattato il quadro storico degli equilibri internazionali tra Est e Ovest. È il polo dominante a guidare l’iniziativa strategica volta a scalzare le posizioni del blocco socialista ritenute un fattore di permanente debolezza politica ed economica della Borghesia Imperialista. Perciò lo scioglimento del Patto di Varsavia ha costituito in questo contesto rivoluzionario il punto di svolta del rafforzamento delle posizioni della Borghesia Imperialista in generale, sia perché la penetrazione e l’integrazione di questi paesi al capitalismo quale nuovo carattere della contraddizione Est/Ovest, hanno consentito un certo respiro alla crisi di sovrapproduzione e in ultimo favorito un salto nella concentrazione del capitale monopolistico accrescendo peso e dimensione  di quello dominante, sia perché il crollo dei paesi socialisti ha fatto venir meno in questa fase, sul piano concreto ma non certo in termini storici-epocali, il riferimento alla realizzazione del potere proletario. Il vantaggio immediato negli equilibri internazionali che ne ha tratto la Borghesia Imperialista si è tradotta nel dispiegamento di nuove linee strategiche finalizzato a rideterminare, sotto l’egida del cosiddetto “nuovo ordine mondiale” degli anni ’90, i rapporti di sfruttamento sia per l’area di nuovo inglobamento al Modo di Produzione Capitalistico che per i paesi della periferia. Linee volte ad imporre rimodellazioni economico-sociali e statuali sotto i diktat degli organismi finanziari internazionali che hanno sovrainteso ai programmi di “aggiustamento strutturale” allo scopo di garantire nuovi margini di penetrazione e redditività all’esportazione di capitali. Il grado di asservimento implicito in questi indirizzi è stato realizzato nella misura in cui l’imperialismo ha potuto o meno infrangere le resistenze dei popoli e i termini di autonomia politica e statuale di tali paesi, linee che hanno avuto nella nuova dottrina NATO l’orizzonte strategico su cui l’imperialismo si è mosso per attestare un posizionamento più avanzato negli equilibri internazionali affermato attraverso le aggressioni al Medio Oriente e ai Balcani e concretizzato con l’allargamento della NATO ai paesi centroeuropei. Su questa rottura degli equilibri internazionali - storici, propri al quadro fuoriuscito dal 2° conflitto mondiale, si sono potuti erigere gli attuali termini  dell’integrazione e concorrenza nei mercati internazionali che hanno visto una prima tappa fondamentale nella penetrazione e innervamento che il capitale monopolistico ha sviluppato negli ex-paesi socialisti e da cui le concentrazioni monopolistiche hanno ricevuto impulso e dato luogo a superiori livelli di integrazione tra le aree capitalistiche, prima di tutto tra USA ed Europa. L’ulteriore crescita della dimensione del capitale monopolistico che si è innescata ha richiesto sbocchi di penetrazione atti a permetterne la valorizzazione adeguata, e ciò ha dato luogo a dei processi complessi di rideterminazione dei rapporti economici con il resto del mondo, caratterizzati da integrazione e perciò interdipendenza a diversi gradi secondo il livello di sfruttabilità da parte del capitale monopolistico dominante. Si è rideterminata così una suddivisione di questi paesi secondo specifiche funzioni capitalistiche: di produzione manifatturiera, di fonte di materie prime e energetiche, di accumulazione monetaria da surplus commerciale, ecc. Nuovi termini di sfruttamento e interconnessione economica sulla cui base questi paesi hanno svolto, almeno per quest’ultimo decennio, una funzione anticiclica consentendo la tenuta del Prodotto Interno Lordo mondiale e nello specifico il rapporto economico asimmetrico che gli USA hanno instaurato con questi paesi ha fatto sì che le merci a costo basso importate da questi paesi tenessero bassi i salari interni e a loro volta i surplus monetari accumulati dai paesi esportatori finanziassero il debito dello Stato, crescente anche per l’incidenza delle spese militari. Da qui la sostenibilità per gli USA del doppio deficit commerciale e federale, nonché la predominanza dei suoi monopoli nella competizione internazionale, anche in presenza di una contestuale riduzione della base produttiva sul proprio territorio, con la destrutturazione di settori produttivi maturi a seguito di chiusure, delocalizzazioni, outsourcing di spezzoni del ciclo produttivo ad alta intensità di  lavoro. Il tipo d’integrazione determinata dalla penetrazione di un capitale monopolistico caratterizzato da tale accresciuta dimensione ha avuto come portato quello di implementare in alcuni paesi lo sviluppo di capitali monopolistici autoctoni; ciò è potuto avvenire in quei paesi che presentano sufficienti condizioni oggettive, ma soprattutto politiche laddove è stata mantenuta l’autonomia politica statale, o un determinato livello di essa è stato raggiunto in situazioni dove alle mobilitazioni popolari contro lo sfruttamento imperialista è stato dato uno sbocco riformista. Di fatto sono comparsi sulla scena del mercato mondiale nuovi soggetti economici, Russia e Cina in testa, che hanno dimostrato di essere concorrenziali nei mercati internazionali per il basso costo delle merci e potenzialmente anche sul piano dei capitali. Ciò detto non è una competizione tra pari soggetti economici, giacché il rapporto che il monopolio dominante ha stabilito con tutti questi paesi è improntato ad una elevata disegualità che definisce anche il loro grado di interconnessione e interdipendenza con l’economia capitalistica, ma da cui scaturisce il crescendo delle contraddizioni e dei conflitti che caratterizzano l’attuale quadro delle relazioni internazionali. Venendo alle Formazioni Economico-Sociali capitaliste, in questo trentennio sono state trasformate dai processi contro tendenziali del capitale indotti dalla crisi di sovrapproduzione e sostenuti dalle politiche complessive degli stati per garantire gli sbocchi ricercati dalla Borghesia Imperialista a partire dal sostegno a quel modello produttivo flessibile che presuppone la massima precarizzazione della forza lavoro e che si è affermato come più idoneo alla strutturale saturazione dei mercati nel quadro della non espansività della fase economica. Sub questi indirizzi si è modificato il ruolo economico dello Stato che per governare la crisi e il conflitto ha accresciuto la sua azione politica generale atta a gestire progettualità complessive finalizzate a rideterminare le condizioni sul piano interno e internazionale per sostenere la valorizzazione capitalistica. Sia le vaste ristrutturazioni produttive e le ampie decolonizzazioni che periodicamente il capitale ha compiuto per innalzare l’estrazione di Plus Valore, sia l’apporto delle tecnologie e dei risultati scientifici all’apparato produttivo ai fini di creare continuamente anche nuovi mercati e nuovi bisogni su cui promuovere e rilanciare la produzione, si sono avvalsi degli indirizzi statuali. Ma soprattutto il ruolo dello Stato si è esplicato negli indirizzi politici che hanno fatto perno sulla rideterminazione dello sfruttamento della forza lavoro e perciò le posizioni del proletariato sono state l’oggetto dell’azione degli esecutivi per trasformare la forza lavoro in fattore dipendente dalle logiche di mercato. Questo ha implicato intaccare le garanzie e conquiste storiche del proletariato quanto a mercato del lavoro e impalcatura giuridico-formale del mercato del lavoro, laddove questo concretizzava le posizioni storiche di classe più o meno attestatesi nei contesti di scontro. Si è trattato quindi di ristrutturazioni economico-sociali affermatesi in misura della rideterminazione delle relazioni Proletariato/Borghesia, Classe/Stato, rivoluzione/controrivoluzione sull’onda di offensive politiche di stampo controrivoluzionario e antiproletario incidenti prima di tutto sul ruolo nello scontro dell’autonomia politica di classe e della sua istanza di potere dove essa è stata presente, per poi circoscrivere e anticipare la politicizzazione del conflitto e le espressioni di antagonismo suscitate dalla crisi e dalle misure per contenerla, indirizzi riformatori che hanno agito come fattori attivi nello scontro e nella misura in cui sono riusciti ad imporsi sulla resistenza di classe hanno potuto modificare la condizione materiale del proletariato. Strategie anticicliche che già all’inizio degli anni ’90 esaurivano i loro effetti positivi mentre la recrudescenza della crisi restringeva gli spazi di competizione nei mercati internazionali e riportava nuovamente gli indici dell’economia capitalistica in recessione. La crisi cioè dal polo dominante allargava e generalizzava le sue caratteristiche alle altre aree economiche e imponeva a quella europea di adottare drastiche direttive per il pareggio dei bilanci statali: come prerequisito per passare all’unificazione monetaria, contesto nel quale anche in Europa si fa pressante il peso della Borghesia Imperialista divenendo i suoi interessi sempre più centrali sul piano politico e perciò nelle scelte degli Stati, interessi che marcheranno il procedere delle riforme di struttura con esse l’evoluzione del quadro economico-sociale e politico-istituzionale intorno ai sempre maggiori poteri degli esecutivi. In tale contesto il dogma neo-liberista già dominante negli USA appare come la via maestra per affrontare l’approfondirsi della crisi di valorizzazione e in questo senso si affermano linee macro-economiche europee, coordinate dalla Banca Centrale Europea, volte a svalorizzare i salari tramite gli accordi neocorporativi di moderazione salariale imposti dagli esecutivi nel quadro delle politiche restrittive monetarie e di bilancio divenute a diverso grado priorità nei programmi economici degli Stati e in cui si situano gli incentivi alle privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento del Welfare. Sotto questo profilo le trasformazioni degli indirizzi economici degli Stati hanno forzato sui termini di una mediazione politica che si presenta con caratteri simili nell’Europa dello “stato sociale” in quanto per ragioni storiche dello scontro tra le classi e in particolare legate a ciò che ha rappresentato la Strategia della Lotta Armata in termini di sbocco rivoluzionario, ha mantenuto livelli più stabili di istituzionalizzazione del conflitto. Ciò che è stato favorito da queste linee riformatrici è il movimento e la concentrazione del capitale finanziario come viatico dei processi di integrazione e allargamento ai paesi dell’Est europeo per farne base economica a livello produttivo e di mercato su cui rivitalizzare l’investimento capitalistico a partire dal ruolo che con i prestiti ha svolto il capitale finanziario nell’assegnare ruoli secondo un grado e tipo diverso di integrazione e sfruttamento di questi paesi all’interno dell’area euro-unione europea. L'ulteriore marginalizzazione delle posizioni proletarie derivate dal concreto impatto di queste riforme è lo sfondo generale in forza del quale si è fatta più marcata la tendenza alla riduzione degli interessi di classe rappresentabili sul piano politico a favore dell'influenza preponderante di quelli della borghesia, rispetto a cui la soggettività politica si è ulteriormente selezionata per accogliere le istanze borghesi volte a portare alle estreme conseguenze la dottrina del mercato e le sue supposte salvifiche proprietà di generare sviluppo economico, di autocorreggere le sue disfunzioni, infine di promuovere la stessa crescita sociale. Dettami apologetici sulla cui falsariga si  è dato il più drastico drenaggio di risorse dal lavoro al capitale nel quadro del progressivo accaparramento ai fini del profitto privato delle risorse strutturali, naturali, sociali, che hanno visto più o meno vasti processi di cessione di beni e servizi costituenti parte di plusvalore sociale e come tali gestiti dallo Stato come beni pubblici. Si è assistito così a un progressivo ritiro dello Stato da quegli ambiti e funzioni di gestione e regolazione dei pubblici servizi che erano stati funzionali a trainare l’economia nella fase espansiva passata e attraverso cui svolgono anche quella sia pur molto relativa redistribuzione di plusvalore sociale calmierante le più acute diseguaglianze sociali e che derivava da quanto il proletariato si era aggiudicato come conquiste sociali e politiche e che allo stesso tempo costituiva il terreno materiale per quella politica riformista intorno a cui lo Stato ha potuto operare una composizione del conflitto sociale e di legittimazione del potere in funzione della controrivoluzione preventiva. La trasformazione del ruolo dello Stato nell’economia e nella fattispecie il suo ritiro dalla gestione di beni e risorse pubbliche porta a completamento il rovesciamento di paradigma rispetto a un modello produttivo, quello fordista, che prese le masse negli anni ’20, si strutturò nella fase prebellica e trainò la fase espansiva post bellica. Modello fordista intorno a cui si era dato lo sviluppo di una produzione per il consumo di massa che lo Stato ha sostenuto con la partecipazione diretta e col sostegno indiretto alla crescita del prodotto nazionale. Le forme di mediazione politica che si attestano nel 2° dopoguerra furono infatti congeniali allo slancio di crescita del fordismo perché coniugarono gli esiti storici della contraddizione Stato/Rivoluzione avente a perno il principio di inclusione, quale risposta delle forme di dominio borghese per neutralizzare la spinta del potere proletario, con la composizione di interessi proletari particolari su quelli borghesi che iniziò a svilupparsi dagli anni ’20. Un contenuto corporativo della mediazione politica che si è esteso secondo i differenti pesi storici delle classi sul piano politico e giuridico-formale che differenzia gli USA dove è centrale, dall’Europa dove è prevalsa l’istituzionalizzazione del conflitto di tipo parlamentarista. Forme di mediazione politica storiche della democrazia contemporanea ruotanti sulla controrivoluzione preventiva quale modo di compatibilizzare il conflitto facendo prevalere gli interessi della borghesia in un contesto in cui doveva essere preservato il suo potere dal pericolo rivoluzionario. Le trasformazioni di questo trentennio sono avanzate in misura della progressiva perdita di peso politico della classe nel rapporto con lo Stato e la borghesia, perdita che ha a monte il blocco e la stasi dei processi rivoluzionari per prevenire i quali si è strutturata una controrivoluzione tesa ad anticipare il coagularsi delle istanze di autonomia di classe e di antagonismo disperdendole e circoscrivendole in modo da renderle inerti. Contestualmente è progressivamente avanzato il processo di esclusione sostanziale del conflitto dal piano politico, come di pari passo è proceduto lo smantellamento nell’ordinamento giuridico-formale degli elementi che riflettevano il peso acquisito dal proletariato e la riduzione della sua rappresentanza istituzionale politica e sociale in un processo che di contro ha portato ad essere centrale la mediazione neocorporativa anche in un paese come l’Italia, per farne perno della stabilità interna e proiettare il dominio borghese sul piano internazionale. In Italia la pressione esercitata dalla crisi generale del capitalismo porta impietosamente alla luce le debolezze storiche della sua struttura capitalistica e soprattutto i limiti e le contraddizioni politiche del passaggio finalizzato a introdurre nei rapporti di classe il modello sociale proposto dall’attuale esecutivo. Modello ritenuto irrinunciabile dalla borghesia proprio per frenare il declino nella competizione internazionale valutando insufficiente il complesso delle modifiche di stampo riformatore che da oltre 20 anni hanno sospinto indietro le posizioni del proletariato subordinandolo ai dettami del mercato e politicamente alla mediazione neocorporativa. Questo perché i processi riformatori non sono certo avanzati pacificamente stante la resistenza proletaria che pur nella frammentazione subita e nell’accerchiamento delle sue istanze autonome ha avuto nel rilancio della Strategia della Lotta Armata lo scudo per frenare l’offensiva degli esecutivi, giacché la soggettività rivoluzionaria di classe nel misurarsi con i progetti neocorporativi ha sostenuto il proletariato nello scontro con lo Stato e la borghesia e ha dato risposte complessive ai nodi dello scontro rivoluzionario e di classe proprio nell’aver ricostruito la capacità offensiva a fronte del grado di assestamento controrivoluzionario verificatosi a seguito del doppio processo controrivoluzionario, potendo in tal modo rimettere in gioco gli interessi generali e storici del proletariato sul terreno del potere. Il rilancio della Strategia della Lotta Armata operato dalle BR-PCC nel 99-2002 è perciò il dato centrale che ha pesato per parte proletaria nello scontro impari con la borghesia e lo Stato, ridefinendo i termini della contraddizione Rivoluzione/Controrivoluzione, classe/stato, proletariato/borghesia, dato politico che essendo inserito nelle relazioni tra le classi ha costituito nello scontro di quest’ultimi 20 anni uno spartiacque che ha reso illineare l’avanzamento stesso dei processi riformatori. Ciò è stato reso evidente dalla stessa esperienza dell’esecutivo Prodi quale espressione appunto della necessità della soggettività politica della borghesia di misurarsi col fattore rivoluzionario riprodottosi a livello adeguato dopo una lunga assenza e perciò di dover agire per divaricare il movimento proletario dalla sua istanza di potere. Da questo nodo inaggirabile la scelta dell’esecutivo Prodi di cooptare nell’area di governo le rappresentanze istituzionali di classe, quale termine di inclusione formale in funzione della priorità di prevenire la politicizzazione del conflitto e di neutralizzare il dato dell’interesse generale di classe fatto vivere nel rilancio. Ciò era ritenuto necessario per poter articolare i programmi di riallineamento dell’Italia sugli indirizzi anticrisi europei su cui puntare per il recupero del PIL e per riqualificare la presenza dello Stato italiano sul terreno delle strategie imperialiste guidate dal polo dominate. In conclusione l’esecutivo Prodi si è caratterizzato per l’alto profilo  che è stato dato alla ricostituzione della politica controrivoluzionaria avente velleità di presidio strategico della stabilità del dominio borghese. Un passaggio politico incalzato dai segnali della crisi generale provenienti dagli USA acuiti dall’impasse sui teatri di guerra delle strategie imperialiste post 11/9 che gettavano ombre pesanti sulla possibilità della borghesia nostrana di riguadagnare la competitività. Da qui la volontà della borghesia di imprimere una sterzata negli equilibri politici del paese a partire da quelli governativi visti come ostacolanti per portare a compimento in modo rapido le trasformazioni degli ordinamenti economico-sociali nonché istituzionali e giuridici e della forma Stato in modo da pervenire alla sanzione di ciò che si è determinato in termini di costituzione materiale nelle relazioni tra le classi. In questo la borghesia ha premuto sulla sua soggettività politica di farsi carico di un’offensiva contro il proletariato finalizzata a spezzarne la resistenza e liquidare i residui di forza politica (statuto dei lavoratori, CCNL…) che si frappongono alla rimodellazione complessiva dei rapporti generali tra le classi, puntando prima di tutto a ridefinire l’impostazione stessa delle relazioni industriali, secondo le indicazioni di Confindustria, per puntare ancora una volta sullo sfruttamento selvaggio della forza-lavoro e sulla compressione dei salari per la ripresa dell’accumulazione. La soggettività politica della borghesia ritenendo sufficiente il ricostituito assetto controrivoluzionario seguito al rilancio ha fatto dell’assunzione di questi interessi il filo a piombo del riposizionamento delle forze politiche di maggioranza e opposizione e perciò della loro brusca selezione per aggregarsi in un pindarico ibrido bipartitismo che avrebbe dovuto garantire celerità ai passaggi politico-istituzionali di ridefinizione dei poteri verso il loro ulteriore accentramento all’esecutivo per realizzare una drastica riduzione degli interessi selezionabili e mediabili coniugata alla più ampia riduzione della rappresentanza istituzionale di classe a livello politico e sociale, passaggi tendenti all’esclusione sostanziale del conflitto dalla mediazione politica. Infatti il modello economico-sociale proposto per avanzare nelle relazioni industriali ha avuto come prerequisito quello di separare CISL e UIL dalla CGIL per isolare tramite essa la componente del movimento operaio e proletario meno disposto a cedere alle pressioni confindustriali, così da garantire la massima libertà d’uso della forza lavoro al capitale per farne un fattore variabile del profitto e dell’andamento del mercato. Perciò le “nuove” regole delle relazioni industriali vogliono sostituire alle rigidità preesistenti un sistema che eleva la flessibilità a norma regolatrice dell’ingesso e uscita della forza lavoro dal mercato del lavoro, istituendo percorsi di formazione che ne selezionano produttività, duttilità  e disciplina. Per altro verso vuole essere ultimata la trasformazione del welfare in cui i diritti acquisiti in termini di salario differito gestito dallo stato sotto forma di servizi, con la privatizzazione di essi che ne fa merci a beneficio del capitale ma anche ulteriore elemento di svalorizzazione del salario, diventano materia di elargizione discrezionale dei sussidi alle forme di povertà prodotte da questi indirizzi. Un modello che vorrebbe organizzare le forze sociali dalla culla alla tomba e che implica la corresponsabilizzazione del sindacato negli enti bilaterali per relazioni industriali basate sul superamento e negazione del conflitto, per instaurare la “complicità”, surrettiziamente coatta, tra capitale e lavoro quale terreno su cui concretamente dissolvere la dimensione politica generale dei rapporti di forza tra Proletariato/Borghesia, Classe/Stato. In concreto la composizione corporativa del conflitto sul piano degli interessi dominanti della borghesia è concepito a partire dalla compartecipazione richiesta all’operaio industriale tramite la cooptazione di rappresentanze sindacali nella gestione aziendale, ovvero per fare della classe operaia la stampella che sorregge le sorti del capitale nella crisi. Un modello di organizzazione econimoco-sociale che malgrado decenni di offensiva antiproletaria della borghesia stenta a pervenire a una trasformazione stabile delle relazioni tra le classi quanto alla subordinazione politica ricercata, ciò in relazione al carattere storico-politico dello scontro di classe in Italia significativamente segnato dal ruolo della strategia della Lotta Armata nelle posizioni politiche dell’autonomia di classe da cui derivano a tutt’ora le contraddizioni e le resistenze agli indirizzi riformatori e al rovesciamento degli ordinamenti legislativi della fase passata e che costituisce, nonostante l’indebolimento delle posizioni del proletariato, il dato politico che si frappone a questo disegno e che spiega perché ogni aspetto messo in discussione dalla borghesia diventa un momento di espressione dello scontro politico più complessivo che si gioca in questa fase tra classe e stato, proletariato e borghesia. Uno scontro nel quale i restanti presidi di forza del proletariato intesi come posizioni politiche e come diritti acquisiti nel corpo legislativo sono oggetto di accerchiamento feroce, a partire dallo sciopero come diritto individuale e dalle misure sanzionatorie delle espressioni di lotta, nonché dalla scelta deliberata di usare i licenziamenti come arma politica di ricatto. Una scelta, quest’ultima, che questo esecutivo ha brandito fin dall’inizio con l’operazione Alitalia e col pubblico impiego anche a fronte dei chiari segnali dei crolli produttivi del tessuto industriale che invece avrebbero richiesto un sostegno all’occupazione a dimostrazione della priorità data alla subordinazione coatta della classe nella convinzione di aggiudicarsi sul ricatto l’acquiescenza su cui costruire equilibri politico-sociali derivati localmente. Questi ultimi devono essere perno di una mediazione politica da sviluppare su basi territoriali, che ha nella riforma federale il suo spazio politico e il suo inquadramento politico formale. Ma tale modello essendo ancora da assestare, con la crisi attuale è sottoposto a tensioni e il linearità per l’esiguità delle risorse da spartire territorialmente e a fronte delle pressioni del conflitto di classe. Sul piano dei processi di trasformazione degli Stati il quadro di riduzione dell’inclusione del conflitto dalla mediazione politica, la sua generalizzazione nelle forze economico-sociali capitalistiche vista con metro storico, indica che si è prodotto uno squilibrio nelle forme di dominio attestate nel 2° dopoguerra. Ciò rappresenta una contraddizione sul piano della reale sostenibilità politica del domino borghese rispetto alla tendenza ineliminabile al reciproco annientamento delle classi antagoniste, contraddizione ancor più cogente a fronte di ciò che  l’autonomia politica di classe nel corso di oltre un secolo di scontro con lo Stato borghese ha sedimentato in termini di impostazione progettuale quanto alla praticabilità della guerra di classe per conquistare il potere politico. Un nodo questo della organizzazione rivoluzionaria di classe che resta sempre aperto nonostante la controrivoluzione sia riuscita temporaneamente a neutralizzarne lo sviluppo, permanendo tutte le ragioni per il superamento del sistema capitalistico. Un nodo inaggirabile,  quello degli esiti cui allude storicamente lo scontro di classe, che carica su tale squilibrio il dato della debolezza strategica della Borghesia Imperialista sul proletariato, tanto più che a tale risultato la borghesia è giunta proprio a fronte della durevole predominanza delle sue posizioni nelle relazioni generali Proletariato Internazionale/Borghesia Imperialista, in base a cui ha potuto pesare quasi unilateralmente sulle scelte politiche degli esecutivi arrivate ad investire i termini entro cui lo Stato assicurava equilibri sociali attraverso la sua funzione economica e di regolatore giuridico-formale. Trasformazioni che hanno ridotto la base materiale di stabilizzazione politica degli esecutivi e che hanno avuto alla lunga effetti di approfondimento sulla crisi stessa per il ruolo giocato dallo stato nel favorire il progressivo spostamento di quote di plusvalore sociale al profitto privato capitalistico, cosa che ha finito con l’intaccare la fonte stessa del profitto entrato in contraddizione con il punto limite a cui è giunta la svalorizzazione della forza lavoro, ben sotto la soglia della sua riproduzione con l’abbattimento degli argini costituiti dalle conquiste secolari. Il peso acquisito dalla Borghesia Imperialista spiega anche il prolungarsi degli indirizzi liberisti anche quando la finanziarizzazione dell’economia che ne è derivata stava costruendo i presupposti per un cortocircuito del sistema capitalistico, a dimostrazione di come la dinamica capitalistica sia intrinsecamente anarchica e distruttiva, tanto più se la borghesia non è obbligata a misurarsi col pericolo che le può derivare dalla classe antagonista e in questo senso le contromisure che oggi gli Stati imperialisti si vedono costretti a considerare scatena un deterioramento di tutti gli indici economici tale da rendere problematico anche individuare una strategia globale che sia un effettivo cambio di registro rispetto all’ultimo trentennio, stante la portata del crollo finanziario prodottosi negli USA che è stato solo il detonatore di una crisi a carattere generale del capitalismo, come fu la grande crisi di fine ’800 e la Depressione degli anni ’30. Quello che si profila, e in parte è già in atto un po’ in tutti i paesi capitalistici in particolare per impulso della nuova amministrazione USA, è un nuovo e superiore livello d’interventismo statale nell’economia. Soluzione che appare indispensabile  per un adeguato sostegno ai meccanismi di rivitalizzazione dell’accumulazione capitalistica e che in primo luogo passa per un controllo parziale o totale da parte dello Stato del sistema finanziario e bancario falcidiato dai fallimenti e dalle perdite  da caricare sui bilanci statali e per l’assunzione degli oneri di spesa di piani infrastrutturali di ispirazione keynesiana atti a stimolare produzione e consumo. L’efficacia di tali stimoli è tutt’altro che scontata, considerato che l’aumento dei deficit statali che tale passaggio implica avviene nel contesto dei crolli degli indici economici a livello mondiale che può alimentare processi di caduta dei valori delle monete con i concreti rischi di default dei bilanci degli Stati con economie più deboli, soprattutto quelle che hanno puntato sulle attività finanziarie o come alcuni paesi dell’est Europa, che ne sono state investite. Infatti uno dei fattori che incide nell’instabilità dei mercati finanziari e monetari è proprio il debito che questi paesi hanno contratto con gli Stati imperialisti e con gli organismi finanziari internazionali, che hanno fatto dei prestiti a questi paesi la forma primaria dell’esportazione di capitale e i cui rientri oggi sono messi in discussione proprio dalla crisi. Un contesto nel quale gli Stati imperialisti più forti giocano le loro posizioni per controllare i flussi di aiuti più o meno pubblici verso i paesi strangolati dai prestiti per favorire la “presa” del proprio capitale monopolistico verso quei paesi e stabilizzare il proprio ruolo di creditore. È peraltro un fatto storico che in crisi di questa portata si acuisca la concorrenza e i capitali più forti siano nella condizione di avanzare nella loro posizione anche fagocitando capitali in via di fallimento, movimenti in atto, con rivoluzionamenti soprattutto nel mondo finanziario e bancario, in cui si gioca il prevalere nella competizione internazionale fino a sommovimenti nelle posizioni gerarchiche della catena imperialista. Più in generale nell’attuale contesto di crisi si fanno forti le spinte dell’imperialismo a ridefinire a proprio favore la Divisione internazionale del lavoro e dei mercati. Spinta che tende a cozzare con la contraddizione che tutt’ora domina le relazioni internazionali, quella Est/Ovest, segnata dal mutamento delle sue caratteristiche seguito al crollo delle esperienze degli Stati socialisti. La recente integrazione al Modo di Produzione Capitalista di questi paesi ha infatti indotto contraddizioni e squilibri dati proprio da come la penetrazione capitalistica ha modificato radicalmente e spesso in modo devastante gli assetti di paesi che possedevano un determinato grado di sviluppo  delle forze produttive sociali, ciò è stato destinato ad incidere profondamente nella frattura che l’imperialismo ha inferto a questi paesi ottenendo la fine delle economie pianificate con la controrivoluzione ad est alimentandone i termini di inconciliabilità. Non è un caso che proprio su questa linea di collisione è focalizzato l’interesse dell’imperialismo, perciò la Russia (e la sua area di alleanze) continua ad essere oggetto dell’elaborazione dei progetti fondamentali riferiti alla necessità di pervenire allo sbocco risolutivo della sua crisi che, secondo l’ottica e i bisogni dell’imperialismo, è raggiungibile tramite lo scatenamento di una guerra di grandi proporzioni. Nell’attuale situazione la Russia, ma anche la Cina, costituiscono il polo principale degli ex paesi socialisti che sono riusciti a mantenere e/o recuperare la propria autonomia politica e che, in base a ciò, sono in grado di giocare un ruolo rispetto alle esigenze di allargamento della loro influenza economica e politica. Le relazioni obbligate all’interdipendenza sono perciò segnate da schermaglie economico-politiche, ma anche politico-militari, sia che gli Stati imperialisti debbano venire a patti con questi paesi nelle transizioni economiche e commerciali, considerando come in particolare la Cina detiene quote elevate dei bond statali USA  e che ancor più oggi gli Stati imperialisti hanno necessità di emetterne per finanziare il debito pubblico, sia la Russia e la Cina, che possiedono ancora elevati surplus monetari e una relativa accumulazione finanziaria, siano in grado di entrare da acquirenti nelle società industriali e finanziarie degli Stati imperialisti. Le contraddizioni dell’imperialismo con questi 2 paesi trovano attualmente la loro più immediata espressione nella competizione intorno al rapporto con i paesi della periferia, rispetto ai quali si assiste da parte degli Stati imperialisti a un rinnovato protagonismo, alimentato proprio dalla crisi e dalla saturazione dei mercati per contendere loro gli spazi  di saturazione e l’esercizio di influenza politica. Infatti Russia e Cina in queste aree regionali per contrastare la pervasività delle ingerenze imperialiste offrono condizioni di scambio non strangolanti per favorire l’investimento dei propri monopoli e in generale tendono a instaurare accordi di reciproca tutela e a coalizzarsi in sede di definizione degli accordi internazionali  di contro ai diktat degli Stati imperialisti. Da qui la recrudescenza di tensioni e conflitti alimentati proprio nei continenti più vessati dal sottosviluppo, come è il caso dell’Africa e dell’America Latina, che si calano nell’attuale contesto internazionale già segnato dalle contraddizioni e dalle fratture che ha prodotto la strategia della “guerra permanente al terrorismo” praticata dal polo dominante e dai suoi alleati sotto la cui egida in questi anni è sta condotta la controrivoluzione imperialista sui popoli resistenti e sui paesi che hanno inteso mantenere la propria autonomia politica stauale di contro alla volontà imperialista di rideterminare il rapporto di subalternità. Alla prova dei fatti l’”esportazione della democrazia” come veicolo della subordinazione dei popoli si è rivelata fallimentare sia quando veicolata dalle aggressioni militari per pacificare i conflitti irrisolti, sia con i mezzi della destabilizzazione economica e politica e l’imperialismo lontano dall’assestare il vantaggio acquisito ha introdotto nuove e più acute contraddizioni generate dalle aggressioni militari e dalle crescenti disuguaglianze dei rapporti di sfruttamento imposti che hanno fatto degli USA e dei suoi alleati il nemico riconosciuto dei popoli e dei paesi che vogliono preservare la loro autonomia. Si sono venuti a divaricare in tal modo i termini della contrapposizione tra imperialismo e antimperialismo il quale ha espresso il suo massimo impatto offensivo con l’attacco alle torri gemelle con cui è stata posta fine all’invulnerabilità degli USA quale presupposto della sua supremazia strategica, evidenziando l’indebolimento sistemico dell’imperialismo a mantenere il dominio. La “guerra permanente al terrorismo” dichiarato dal polo dominante avente per oggetto i popoli resistenti e i paesi politicamente autonomi, ha comprovato l’impossibilità di vincere in base alla supremazia economica e militare non potendo ancora chiudere i fronti aperti che hanno inghiottito uomini e risorse senza fine, cosa che induce un logoramento delle sue posizioni e della stessa stabilità interna della metropoli imperialista. Fanno testo di ciò i teatri di guerra iracheno e afgano e i più recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese in cui la resistenza di Gaza ha vanificato ogni obiettivo politico-militare che il bombardamento si prefiggeva per i progetti di pacificazione sionista, che evidenziano della contraddittorietà insita nelle aggressioni alle nazioni nel cui seno si sviluppa una resistenza armata, fronti di resistenza che seppure a tutt’ora non hanno potuto concentrare le proprie forze per rovesciare le sorti del conflitto, ricavano però dal logoramento inflitto alle posizioni imperialiste il margine per il mantenimento delle posizioni di resistenza della guerra di popolo, potendo conseguire in tal modo anche avanzamenti significativi che si traducono in termini di legittimità ad esistere. È per altro un fatto che l’imperialismo per mantenere il dominio sui popoli ha sviluppato di continuo strategie controrivoluzionarie finalizzate a bloccare i processi di liberazione. Ciò ha significato sviluppare pratiche genocide o di guerre interposte per sottoporre i movimenti di liberazione nazionale, anche quelli che avevano raggiunto il potere, a uno strisciante logoramento atto a indebolirli e/o rovesciarli. Guerre controrivoluzionarie che di certo hanno imposto una impasse nello sviluppo dei movimenti di liberazione e nei movimenti di emancipazione sociale e politica dei popoli, specialmente dopo che l’imperialismo ha potuto usufruire dei rapporti di forza a suo vantaggio causati dallo squilibrio nelle posizioni Proletariato internazionale/Borghesia imperialista a favore di quest’ultima con il venir meno del campo socialista, ma che non hanno potuto pacificare i punti di maggiore resistenza che hanno mantenuto aperti i punti di maggiore contraddizione imperialismo/antimperialismo, perciò stesso impedito l’annientamento dell’istanza di liberazione e per contro la stabilizzazione del dominio imperialista. Dalla Yugoslavia in poi l’imperialismo con le sue aggressioni ha dato luogo a vere e proprie guerre che, per quanto geograficamente limitate, sono state massimamente cruente e distruttive, guerre che hanno avuto anche l’intento di ricavare margini di sblocco ai propri capitali per dare un breve respiro alla valorizzazione e non ultimo puntando sull’effetto economico dello stesso riarmo verso cui periodicamente si è condensato il monopolio del polo dominante sugli sviluppi tecnico-scientifici produttivi. Perciò la guerra permanente con il suo alto tributo di vittime nelle popolazioni è a tutti gli effetti una pratica di eccidio dei popoli resistenti (come nella peggiore tradizione del colonialismo dell’inizio del secolo scorso) che esprime al massimo grado l’essenza dell’indebolimento dell’imperialismo nella capacità di imposizione e mantenimento del dominio. Un’essenza riconducibile alla natura del rapporto che stabilisce con le nazioni e i popoli, basato sull’innalzamento di spaventose disuguaglianze e che genera fratture per l’assoggettamento controrivoluzionario che impone da cui si alimentano i punti di resistenza e conflitto. In questo senso si è evidenziato il nesso tra irresolubilità della crisi e delle contraddizioni del capitalismo ed erosione progressiva del vantaggio acquisito con le controrivoluzioni nei rapporti di forza internazionali. Ciò a dimostrazione di come la vittoria momentanea su una nazione che ha raggiunto lo sbocco rivoluzionario del socialismo o su un movimento di liberazione non risolve della natura caduca intrinseca al capitalismo nel suo stadio imperialistico, e quindi resta all’ordine del giorno la necessità del suo superamento attraverso la sua sconfitta. Nel contesto di crisi economica mondiale e di aggressione ai popoli sotto l’egida della “guerra infinita”, a cui ha condotto il dominio maturo dell’imperialismo, nel quale è quotidianamente tangibile il grado di distruttività, impoverimento e regressione sociale che la Borghesia Imperialista impone per la propria sopravvivenza, è più che mai diritto inalienabile del Proletariato Metropolitano e dei popoli spezzare questo dominio, sbocco storicamente reso possibile dall’affermazione nel corso del processo storico tra rivoluzione e controrivoluzione e tra imperialismo e antimperialismo della Strategia della Lotta Armata per il Comunismo per il proletariato e delle guerre di liberazione per i popoli. Nel quadro di questa necessità storica rivendichiamo il contributo delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente all’affermazione degli interessi generali e storici di classe, all’internazionalismo proletario e all’antimperialismo, ribadendo il ruolo e la valenza che rivestono le Brigate Rosse nel percorso di emancipazione del proletariato italiano di contro alla borghesia e allo Stato e il contributo nella esperienza della guerriglia comunista in Europa occidentale.

I Militanti delle BR-PCC
Maria Cappello
Franco Grilli
Rossella Lupo
Fabio Ravalli
La Militante Rivoluzionaria
Vincenza Vaccaro